In questi anni mi sono chiesta molte volte perché le persone affette da paralisi dovuta a lesione al midollo spinale non si siano quasi mai veramente attivate per supportare la ricerca di una cura a differenza di quanto fatto invece da chi convive con patologie simili, come ad esempio la Sclerosi Multipla.
Ho personalmente constatato che in pochi si interessano o supportano davvero la ricerca, quasi come soffrissero di una sorta di Sindrome di Stoccolma da mielolesione.
Per chi non lo sapesse, la sindrome di Stoccolma è un processo psicologico inconscio che promuove relazioni affettive inverosimili fra vittime di sequestro e rapitori. Gli ostaggi finiscono per simpatizzare con i loro sequestratori, arrivando al punto di considerarli non dei delinquenti ma bensì degli amici.
Si evidenziano tre frasi principali, la prima in cui gli ostaggi sviluppano sentimenti positivi verso i rapitori, la seconda in cui affiorano dei sentimenti negativi delle vittime verso la polizia, e in fine viene a svilupparsi una reciprocità di sentimenti positivi fra sequestratori e vittime. Non si conosce per quanto tempo possa continuare, ma si sa che la sindrome di Stoccolma può sussistere a lungo, anche per diversi anni.
Io ho 30 anni e sono paraplegica, cioè paralizzata dal petto in giù, da quasi 13, ma fin dall’inizio il mio obiettivo è stato quello di non arrendermi alla sentenza di “paralisi perenne” pronunciata dai medici.
Ho affrontato la cosa in molte fasi, ad esempio durante i primi mesi post trauma midollare dedicavo ogni minuto del mio tempo alla fisioterapia, convincendomi che l’impegno e la mia forza di volontà mi avrebbero permesso di tornare a camminare.
Nei mesi successivi però, con lo stabilizzarsi della mia condizione, realizzavo come la situazione purtroppo non fosse temporanea, e che il “non camminare” era solo una delle molteplici conseguenze della mielolesione (nemmeno la più terribile) ma, soprattutto, capivo che la mera forza di volontà non sarebbe bastata.
Col passare del tempo ho continuato la fisioterapia e ho sempre cercato di affrontare la vita con “un sorriso”, tentando di fare ciò che potevo per continuarla al meglio delle mie possibilità, ma ciò non significa che quanto accaduto mi stesse bene, il mio obiettivo principale infatti è rimasto sempre lo stesso: poter tornare alla mia vera vita autonoma e indipendente ed è evidente e razionale pensare che solo la ricerca medica potrebbe permettermi di realizzarlo o quanto meno potrebbe restituirmi parte delle funzioni fisiologiche perdute a causa della lesione spinale.
Ma contrariamente a ciò che si possa pensare, non sembra che tutti i mielolesi abbiano come primo obiettivo la CURA della loro patologia (o condizione che dir si voglia), o se ce l’hanno, pare ahimè, che non si impegnino molto per raggiungerlo. Mi spiego meglio.
In questi anni, ho incontrato sempre più persone che invece di incoraggiarmi a lottare per una cura, cercavano di farmi desistere e mi elencavano quante cose potessi fare comunque nonostante la paralisi, consigliandomi di “adattarmi” ed “accettare” la cosa perché infondo “Si può vivere bene anche in carrozzina”. Se è evidente che alcuni di loro me lo dicessero in buonafede, perché avevano paura che io potessi crollare o illudere troppo, ciò che mi suonava strano era sentirmelo dire da persone mielolese come me e che quindi sapevano cosa volesse dire essere paralizzati, imprigionati in un corpo che non risponde ai tuoi comandi.
Quando tutti ti dicono che non c’è soluzione e ti fanno passare per uno stupido, depresso o illuso solo perché lotti per una cura, la tua forza d’animo traballa e allora per evitare le frustrazioni, gli sguardi compassionevoli, quelli di biasimo etc.. instauri una sorta di meccanismo interno di difesa.
Sviluppiamo l’arte di essere auto ironici, forse inconsciamente tentiamo di far credere agli altri e a noi stessi che siamo forti, che abbiamo saputo reagire e “adattarci” a questa vita e infine, per salvaguardare la dignità che c’è rimasta e darci una ragione per continuare, mostriamo solo una parte della realtà che viviamo, omettendo spesso di raccontare quella che ci fa più male e che ci provoca senso di frustrazione e ci fa sentire inermi, focalizzandoci solo su quegli aspetti che pensiamo essere positivi per noi, arrivando a tentare “imprese assurde” per chiunque, portate avanti non per passione ma solo per dimostrare non si sa bene cosa e a chi, allontanando da noi tutto ciò che ci lascia intravedere una reale speranza ma pensiamo, possa incidere negativamente sull’idea che gli altri hanno di noi, o ci sembrano cose troppo lontane o abbiamo paura non si realizzino mai.
Per un breve periodo credo di aver sofferto anch’io della “sindrome di Stoccolma da mielolesione”.
Alcuni autori ritengono che la sindrome di Stoccolma derivi dallo stato di dipendenza concreta che si sviluppa fra il rapito ed i suoi rapitori; quest’ultimi infatti controllano cibo, aria, acqua e sopravvivenza, elementi essenziali che, da un punto di vista comportamentale, quando vengono concessi, giustificherebbero la gratitudine e la riconoscenza che gli ostaggi manifestano nei confronti dei loro carcerieri. Altri autori, la maggioranza a dire il vero, affrontano invece il fenomeno da un punto di vista più tipicamente psicoanalitico. In generale, si potrebbe affermare che nel tentativo di trovare un equilibrio fra le richieste istintive ed una realtà angosciosa, non si può far altro che mettere in atto meccanismi difensivi. (Fonte http://www.corriere.it/salute/dizionario/stoccolma_sindrome_di/index.shtml)
Noi mielolesi arriviamo a descrivere il nostro aguzzino, la lesione spinale, come qualcosa che alla fine non ci ha fatto poi così male e invece in un certo senso sviluppiamo un atteggiamento negativo nei confronti della ricerca medica (polizia) che potenzialmente potrebbe restituirci la vera libertà. Di fatto, è come se ci accontentassimo di abbellire e rendere confortevole la nostra gabbia, lottando strenuamente per questo, ma non ci impegnassimo abbastanza per tentare di evadere. Facciamoci qualche domanda: Quanto tempo abbiamo dedicato a comprendere cosa sia davvero una lesione spinale e cosa comporti dal punto di vista medico scientifico, sociale ed economico? Quante pubblicazioni o quanti articoli in merito abbiamo letto? Quanti ricercatori conosciamo se non personalmente almeno di fama, che si occupano di studiare questa patologia? Quanti eventi a favore della ricerca abbiamo supportato? Quanto abbiamo donato? Quante volte invece abbiamo ad esempio fatto il diavolo a quatto perché abbiamo trovato il parcheggio disabili occupato da chi una disabilità non ce l’ha?
Come dicevo inizialmente, quello che è singolare è che in altre patologie che hanno parecchio in comune con la nostra, come la sclerosi multipla ad esempio è normale lottare per una cura, anche se al momento non esiste, ma nel “nostro mondo” invece diventa “segno di debolezza”.
Tutti sperano in cuor loro in una cura ma nel frattempo non lottano per supportarne la ricerca, nascondendosi dietro a frasi del tipo: “C’è chi sta peggio di noi”, “Io non sono un ricercatore”; “Non ci cureranno mai perché ci sono troppi interessi economici”, “Quando ci sarà una cura ce lo faranno sapere ma visto che ora non c’è, vivo come posso adesso” etc..
Quasi come se la nostra patologia fosse da considerarsi di “serie B” e che quelli che lottano per la cura come me, non tentassero di vivere la propria vita attivamente ma si “piangessero addosso” e cercassero solo la compassione degli altri.
La mia domanda è: “Perché dovremmo vergognarci di lottare per una cura? Se non lo facciamo noi per primi, perché dovrebbero farlo quelli che con la lesione spinale non hanno nulla a che fare?”
Quando si parla di disabili, il messaggio che passa in tv è quello della “disabilità eroica” proposta ad esempio dalle paraolimpiadi di Londra o dalla concorrente disabile del grande fratello che sostiene che “l’invalidità non è invalidante”.
Salvo rari casi, infatti i mass-media non amano mostrare tetraplegici allettati e con il respiratore che hanno bisogno di assistenza 24 ore su 24, ma preferiscono fare vedere solo la parte di noi che ai loro occhi risulta “vincente”, e molte volte, siamo proprio noi che ci prestiamo, forse perché in un certo senso ci sembra che questa “fama” ci restituisca un po’ del maltolto, ma senza renderci conto che alcune cose che diciamo risultano paradossali agli occhi degli altri che però ci percepiscono “contenti così” e quindi spostano altrove i loro sforzi e la loro voglia di sostenerci a discapito di tutti quelli, la maggioranza di noi, che purtroppo non ha la possibilità di uscire dalla sua prigione e fare in modo di far sentire la propria voce a causa delle gravi conseguenze che la lesione gli ha causato.
Nel caso della paralisi da lesione spinale infatti, tutto ciò, a mio parere, trasmette un messaggio fuorviante che va contro di noi e spesso nemmeno ce ne accorgiamo, occupati come siamo a mostrarci forti e a non far trapelare le gravi conseguenze che la lesione spinale comporta e che ci rendono la vita una tortura fisica e mentale.
In tutta onestà mi domando: “Perché chi partecipa ai giochi paralimpici è un “eroe” e invece chi lotta quotidianamente per una cura pur cercando di continuare la propria vita è considerato illuso e depresso?” Da quando “adattarsi” è sinonimo di “lottare”, mentre “non arrendersi” è sinonimo di “debolezza”? Qualcuno mi ha risposto, bisogna sapere quando arrendersi per vincere. Ma da quando arrendersi significa “vincere”?
Certo, “la vita continua” e chi può tenta di portarla avanti al meglio ma, citando una famosa canzone di Ligabue, mi verrebbe da dire: “Chi si accontenta gode così, così”. Forse non ci ricordiamo o non vogliamo ricordare più com’era la nostra vita quando eravamo indipendenti, quando potevamo decidere di andare in bagno come e quando volevamo senza ricorrere a cateteri e svuotamenti anali, quando non eravamo costretti a dipendere da altri anche per svolgere azioni banali senza la paura di non avere più nessuno che si occupa di noi e senza provare tristezza per la libertà perduta e rimorso per quella che togliamo a chi ci assiste, quando potevamo sentire il calore del sole o di una carezza sulle nostre gambe, quando fare l’amore significava poter “sentire l’altro” non solo mentalmente, quando le mie amiche e i miei amici tetraplegici non dovevano chiedere ad altri di portare alle loro bocche un bicchiere d’acqua per bere e potevano essere liberi di lavarsi e vestirsi da soli e fare tanto altro ancora.
Forse non ci ricordiamo più cosa pensavamo quando prima di essere mielolesi incontravamo qualcuno seduto su una carrozzina. Ci dispiaceva, perché percepivamo che la vita da paralizzati non era una “bella vita”, ma una vita piena di limitazioni rispetto alle altre.
Se ce ne ricordassimo forse la smetteremo di dire che “Possiamo fare tutto ugualmente” o “Che se potessimo tornare indietro rivorremmo la nostra vita esattamente com’è, lesione spinale compresa”.
Ma siamo poi così felici di essere come siamo? Abbiamo così paura di lottare che ci accontentiamo delle briciole? Il nostro disperato tentativo di sopravvivere ci ha fatto “adattare” talmente bene alla nostra gabbia che abbiamo deciso che la vera libertà e l’indipendenza nostra e dei nostri cari, non siano poi così importanti?
Forse non siamo poi così diversi dai prigionieri affetti dalla sindrome di Stoccolma che andarono a difendere i loro aguzzini in tribunale, noi scriviamo elogi alla carrozzina e agli esoscheletri dicendo che “grazie a loro non c’è più niente che non possiamo fare”, mentre spesso non investiamo nemmeno pochi minuti del nostro tempo per informarci e promuovere quella ricerca medica che potrebbe potenzialmente restituirci la nostra vera vita autonoma e indipendente.
Pensiamo che la ricerca offra solo speranza, mentre l’ausilio qualcosa di concreto? Mi domando cosa pensino a riguardo tutte quelle persone che sono sopravvissute solo grazie alle scoperte della ricerca medica.
Ad oggi una “cura” per la paralisi non esiste, ma è stato dimostrato scientificamente che la rigenerazione del midollo spinale é possibile, pare non sia più una questione di sé, ma di quando. Perché non tentare di far accorciare i tempi allora?
“Uno non deve mettere i fiorellini alla finestra della cella della quale è prigioniero, perché sennò anche se un giorno la porta sarà aperta lui non vorrà uscire.“
Silvano Agosti, Il discorso tipico dello schiavo, 2008
Cure Girl Loredana