Da alcune settimane è uscito in Inghilterra il film “Me before you” (in Italia a settembre), la trasposizione cinematografica dell’omonimo libro della scrittrice inglese Jojo Moyes che ho finito di leggere pochi giorni fa.
È la storia di Will Traynor, un giovane bello, ricco, con una solida carriera, sportivo e dinamico, che si ritrova tetraplegico in seguito ad una lesione del midollo spinale (tetraplegico = paralisi a tutti e quattro gli arti). Dopo due anni in tali condizioni, decide di darsi sei mesi di tempo per “organizzare” il suo suicidio assistito; nel frattempo i genitori cercano un’assistente, e si presenta una ragazza acqua e sapone, Louisa Clark, all’inizio ignara della decisione del suo datore di lavoro, ma una volta appuratolo, decide di fargli vivere più esperienze possibili per cercare di dissuaderlo da quella idea.
Intorno a questo argomento si sono alzate le voci di protesta da parte di disabili, in associazioni e non, che si chiedono: “Perchè il cinema ci dipinge negativamente? Perché dobbiamo passare come deboli, arrendevoli, desiderosi di farla finita se la vita non ci dà tutto ciò che vogliamo? La vita, invece, va vissuta anche nella disabilità, e può essere ancora più felice di quella dei non disabili…” e via dicendo. Ecco, a tutte le persone disabili che si sono sentite offese da questo atteggiamento “negativo” del protagonista della storia, voglio dire: Voi avete fatto, consapevolmente o no, la scelta di vivere nonostante tutto (finora è stata anche la mia scelta), quindi vivete la vostra vita come credete, senza preoccuparvi di cosa penserebbero di voi coloro che con la disabilità non hanno nulla a che vedere. Perché, che siate felici o no nella vostra disabilità o diversa abilità (chiamatela come volete, la sostanza non cambia), le persone non disabili avranno sempre paura che una tale sorte potrebbe accadere anche a loro. Vi ammireranno per la vostra forza (alcuni vi invidieranno, addirittura!), ma penseranno sempre “Se una merda del genere capitasse a me, non lo sopporterei”.
E non serve neppure scandalizzarsi verso chi “accetta” la drammatica decisione di un proprio famigliare di porre fine alla sua vita piena di sofferenze.
Ci vuole coraggio a scegliere di vivere nonostante tutto, ma la scelta opposta non si affronta a cuor leggero… anzi, tutt’altro. Non è un gesto di vigliaccheria e va rispettato.
E infine: se siete disabili senza bisogno di essere assistiti nel compiere le attività della vita quotidiana, non avete gli argomenti per giudicare con cognizione di causa… quindi, per favore, non recitate la parte del moralista.
Questo è ciò che dice Will a Louisa circa la sua intenzione di morire:
“Non voglio che tu sia legata a me, ai miei appuntamenti in ospedale, alle limitazioni della mia vita. Non voglio che tu ti perda tutto quello che qualcun altro potrebbe darti. Ed egoisticamente, non voglio che un giorno tu mi guardi provando anche il minimo rimpianto o pietà e…”
“Non lo farei mai!”
“Non puoi saperlo, Clark. Non hai idea di come potrebbe diventare. Non hai nemmeno idea di come potresti sentirti fra sei mesi. E non voglio guardarti ogni giorno, vederti nuda, osservarti mentre gironzoli per la dépendance con i tuoi abiti folli e non… Non essere in grado di fare quello che desidero con te. Oh, Clark, se sapessi cosa vorrei farti in questo momento. E io… non posso vivere con questa consapevolezza. Non posso. Non è da me. Non posso essere il tipo di uomo che semplicemente… accetta”.
Prendetevi un po’ di tempo per pensare… si può davvero biasimare quest’uomo per la sua scelta?
Cure Girl Barbara