Quando ci si ritrova improvvisamente con una disabilità, si vive una situazione di disagio. Quando poi la disabilità compromette l’autonomia personale, il disagio non è soltanto della persona colpita direttamente, ma anche di chi le sta più vicino. Tutto viene stravolto e ci si deve adattare alla nuova situazione se si vuole sopravvivere. La diagnosi di una lesione spinale, finora, è così: la condanna a vita su una sedia a rotelle che, nella migliore delle ipotesi, è possibile spingerla con le proprie mani; nella peggiore, con attaccato dietro un respiratore meccanico.Quando si sente pronunciare la frase “non potrai più camminare”, crolla il mondo addosso. Almeno è quello che ho spesso letto o sentito raccontare da persone che hanno perso l’uso delle gambe. In una condizione di paraplegia (paralisi degli arti inferiori) ci si deve ricostruire la propria vita in base alle nuove, impreviste esigenze. In casa vanno rimossi gli ostacoli, ma spesso non è sufficiente, bisogna fare ulteriori lavori per costruire rampe, ascensori, allargare porte, modificare bagni… e addirittura per alcuni neanche questo è sufficiente, si è costretti a cambiare casa. E poi non dimentichiamo chi è costretto a ricorrere agli istituti, perché non ha né casa né famiglia. Per chi aveva già un lavoro, si è fortunati se si può continuare con la stessa occupazione, o tutt’al più passare a mansioni d’ufficio. Fra la categoria dei fortunati rientrano pure coloro che riescono a trovare il lavoro per la prima volta. Così si cerca in tutti i modi di vivere al meglio possibile, tra alti e bassi, privandosi di tante cose che si facevano prima e aggiungendo altre che non si vorrebbero. Cosa succede, invece, quando si perde anche l’uso delle braccia? L’unica cosa che accomuna una condizione di paraplegia a una di tetraplegia (paralisi a tutti e quattro gli arti) è la reazione alla comunicazione della diagnosi. Tutto ciò che segue è decisamente amplificato all’ennesima potenza… e mi riferisco solo ai problemi legati alla patologia in sé per sé. Oltre a questi problemi, la persona tetraplegica deve subire anche la dipendenza totale dagli altri per svolgere tutte le attività della vita quotidiana. Una situazione che mette a dura prova sia chi riceve assistenza sia chi la offre, in modo particolare se essa è destinata ad essere permanente. Le prime persone a prendersi carico dell’assistenza sono i familiari, ma ovviamente non può durare a lungo, ed è giusto e doveroso che sia così… sia per la persona disabile che per chi l’assiste. L’assistente personale è un operatore che si prende cura di una persona non autosufficiente. Nella maggioranza dei casi, è naturale che un familiare si prenda cura di un figlio, una madre, un padre… Nello svolgimento di azioni particolari e delicate occorre sensibilità e freddezza nello stesso tempo; ma più di tutto, c’è bisogno di rispetto reciproco. Senza girarci intorno, essere costretti a farsi “mettere le mani addosso” per compiere le fisiologiche azioni quotidiane comporta disagio… e chi afferma il contrario, mente sapendo di mentire. Il rapporto di fiducia e confidenza che c’è con un familiare fa pesare il meno possibile questo disagio; ed è difficile che avvenga lo stesso con un assistente di professione, quantunque egli/essa sia professionale. Ma una persona non autosufficiente ha bisogno di quella figura, prima o poi, e spesso risulta molto difficile trovarne una che rispetta i requisiti che si richiedono. Ancora peggio, può capitare che la ricerca si protrae a lungo, mettendo la persona disabile in uno stato d’ansia. Da qui ci vuole poco a passare alla frustrazione, pensando a quando arriverà il momento in cui una persona estranea dovrà fare parte della tua vita… (e non per motivi sentimentali). Una persona autonoma, seppur su una maledetta sedia a rotelle, a questo non deve pensare. Non deve pensare a cosa farà quando i suoi familiari non ci saranno più… non le sfiorerà neanche per un attimo il pensiero che sia meglio essere lei ad andarsene per prima. Mentre si alza da sola dal letto, va in bagno, fa le sue cose, si prepara per uscire al lavoro (magari incazzata, perchè avrebbe voluto restarsene a letto), per fare una commissione per sua madre, ritrovarsi con un amico, ecc… penserà a quanto era felice quando andava al mare e camminava lungo la riva, andava a ballare il sabato sera, non aveva problemi di infezioni, tutto il suo corpo era sensibile, e via dicendo. Non penserà che si trova da sola in bagno, sotto la doccia, al volante di un’auto, e non ha bisogno di nessuno che faccia quelle cose al suo posto per lei… Forse ogni tanto ci penserà… e ringrazierà per la sorte peggiore che non le è capitata… ma al primo intoppo che si parerà di nuovo davanti, eccola imprecare e mandare tutti al diavolo… così addio a tutti i ringraziamenti. Conclusioni: la lesione spinale è una brutta bestia che può provocare gravissime disabilità permanenti. Il peggio è subire una lesione nelle sette vertebre cervicali, e il peggio del peggio nelle prime tre. La ricerca è ancora nella fase sperimentale. “Non siamo ancora arrivati alla soluzione, ma la strada che abbiamo preso è quella giusta”. Più o meno, questa è la risposta di scienziati e ricercatori alla domanda “Quando arriverà una cura?”. E mentre loro continuano sulla giusta strada a piccoli passi, i diretti interessati aspettano… chi più spensierato, chi meno, chi per niente. Nell’attesa, però, si può scegliere di lottare per mettere in evidenza l’urgenza di trovare presto una cura per tutti i tipi e i livelli di lesione, portando all’attenzione del pubblico la vera realtà di ciò che comporta una lesione spinale. Affinchè le voci che spronino la ricerca scientifica ad affrettarsi per trovare una cura, siano molte di più e facciano più rumore degli applausi di ammirazione a chi sostiene di non essere disabile, ma di stare solo seduto.
Cure Girl Barbara